VIA FRANCIGENA/LECCE-OTRANTO
Fra masserie, tesori bizantini e pietre antiche
Si parte da piazza Sant’Oronzo, all’ombra del patrono della città che con la sua mano benedicente indica la strada della Via Francigena del Salento. è questa la seconda tappa dell’itinerario che attraversa tutto il sud della Puglia fino a Santa Maria di Leuca. Ce ne sono altre due: Brindisi-Lecce e Otranto-Leuca.
Si esce dal centro storico di Lecce costeggiando il Castello di Carlo V (km 0,2), uno dei più grandi del Mezzogiorno. Quando si imbocca viale Torre del Parco (km 1,1), si passa proprio sotto “gli archi”, ovvero attraverso la fortezza che nel 1400 fu residenza degli Orsini del Balzo e di Maria d’Enghien, regina di Napoli, quando Lecce era una delle più importanti città del Mezzogiorno.
Si esce dalla città da via Merine, si passa sulla tangenziale grazie a un cavalcavia e si prosegue, nella campagna urbanizzata, fino a Merine (km 5,3), piccola frazione di Lizzanello, entrando da via Lecce per poi arrivare nella piazza, salutati dalla sobria facciata neoclassica della Chiesa di Santa Maria delle Grazie.
Si esce da via San Leuci e al grande rondò che incrocia la strada per Vernole si va dritti imboccando la provinciale 337, che in realtà, a dispetto del nome, è una stradina a basso traffico. E qui il paesaggio inizia a cambiare, annunciato dai muretti a secco che delimitano il cammino, sia pur tra molte case rurali. Si pedala per circa due chilometri fino a quando sulla sinistra si scorge un antico muro cinquecentesco, è la masseria Il Bello, quasi completamente diroccata. Inoltrandosi nella campagna, avvolto fra i rovi, appare il monumentale Pagliarone Il Bello (km 10,1), ovvero un grande edificio rurale a base circolare, usato come ricovero dai contadini e dai pastori, gioiello dell’architettura povera rurale. Costruito nel 1821, è considerato uno dei più grandi del Salento.
Per proseguire bisogna tornare sui propri passi optando per una breve ma interessantissima deviazione, lasciando per qualche chilometro i segnali della Via Francigena. Si segue il tratturo, si passa accanto a spettacolari ulivi millenari e si arriva a Masseria Visciglito (km 11,9). O meglio quel che resta di Masseria Visciglito. Questo era un sito già conosciuto dai Romani e sul tratturo le tracce nella roccia parlano chiaramente di antiche frequentazioni. La masseria è del Cinquecento ma qui sorse un importante convento dei Gesuiti nel 1700, anche se successivamente fu una elegante dimora rurale come lascia pensare il bellissimo colonnato al primo piano. Oggi qui regna solo l’abbandono.
Ancora un grande storico uliveto e si ritorna sulla traccia ufficiale della francigena, una strada asfaltata che dritta dritta sbuca alle porte di Acaya (km 15), un borgo, piccolissimo, merita più di una sosta fugace: ad accogliere il viaggiatore sono le mura cinquecentesche e varcata la porta, su cui campeggia la statua di Sant’Oronzo, si entra in una bella piazza, cuore della città fortificata costruita da Giangiacomo dell’Acaya, l’ingegnere militare di Carlo V. Modello di città ideale, Acaya insieme al fossato e alle possenti mura (sulle quali c’è un breve cammino) offre l’emozione di entrare nel Castello, spesso sede di mostre, con le sue magnifiche sale.
Con alle spalle Acaya, inizia il mondo della dolce campagna del territorio di Vernole. Quando si supera la provinciale Strudà-Vanze si incontra Masseria Copertini (km 17), oggi avviato agriturismo. Subito dopo, sulla sinistra, spunta una grande pajara (km 17,2) con base rotonda, perfettamente integra, alta non meno di cinque metri.
Poco meno di un chilometro dopo, seguendo le curve della stradina di campagna, con un ottimo fondo stradale per le bici, compare, nella campagna di Vanze, dietro alla recinzione su muretto a secco, al centro di un giovane uliveto, un altro grande monumento dell’architettura contadina: è un Pajarone (km 17,9) con base quadrata, davvero imponente. Non ci si può avvicinare, anche perché dalla strada non si intravede l’ingresso del fondo.
Si continua a pedalare per un altro chilometro fino a sfiorare Acquarica di Lecce (km 18,7). Invece di entrare nel paese, si continua fino a Vernole (km 20,9), dove, nella piazza centrale, sotto il livello stradale c’è un grandissimo frantoio del 1500, il Frantoio ipogeo Caffa, interamente scavato nella roccia, a cui si accede da una scala che si apre al centro della stessa piazza.
Da Vernole si esce da Via Segine, dall’antico nome di Acaya, che si percorre per quasi due chilometri fino all’incrocio con via Vecchia Melendugno. E qui c’è il cantiere della Tap (km 24), ovvero del gasdotto trans-adriatico, conosciuto con l’acronimo inglese di Tap, Trans-Adriatic Pipeline, che costringe a una piccola deviazione rispetto al tracciato della Francigena. Siamo nel territorio di Melendugno, dove la mano della pianificazione energetica sovranazionale ha voluto tracciare la linea di un gasdotto inviso alla popolazione locale che arriva dall’Azerbaigian.
Poco più avanti, in un giovane uliveto, ecco comparire il piccolo Dolmen Gurgulante (km 24,7), alto poco meno di un metro. È solo un annuncio, discreto, di quello che si incontrerà più avanti nell’entroterra di Otranto, un vero e proprio giardino megalitico popolato di primitivi monumenti di pietre antiche. Arrivati sulla provinciale Melendugno-Calimera, si svolta a destra e la si percorre per circa ottocento metri fino a quando, sulla sinistra, non si ritrova la traccia della Francigena.
Si passa nei dintorni di Calimera, entrando in piccoli lecceti, gli ultimi resti dell’antica foresta che ricopriva gran parte di quest’area del Salento, toccando la tenuta di Masseria San Biagio (km 28,5), dove c’è anche una chiesetta semi-ipogea bizantina risalente all’anno mille.
Dopo aver costeggiato il bosco La Mandra, con l’avvicinarsi al centro abitato di Martano si moltiplica la presenza di abitazioni rurali. Poco prima di giungere sulla circonvallazione, ecco sulla sinistra il Naturalis Bio Resort (km 33,6), specchio dell’azienda agricola che grazie alla coltivazione biologica dell’aloe vera ha fatto di Martano (km 34,6) un importante punto di riferimento per la cosmesi naturale.
Si prosegue sfiorando il centro abitato di Martano passando accanto alla chiesetta della Madonnella (km 34,6) che, con la sua facciata classica in pietra leccese, sembra essere lì a indicare che questa è anche una strada della fede.
Si entra poi nel territorio di Carpignano Salentino e nei pressi della Masseria Sciuscio, fra la vegetazione spontanea, che in primavera e in autunno è particolarmente copiosa e invadente, ecco la sorpresa: siamo davvero sulla Via Traiana Calabra (km 36,3). Bisogna aguzzare la vista per rendersene conto: tra il verde ondeggiante al vento ecco definirsi i solchi nella roccia dell’antica strada romana che collegava Brindisi a Otranto e che è stata poi battuta fin nell’Ottocento dai carri che hanno definito la conformazione del banco roccioso. La carreggiata, abbastanza larga, è circondata da banchi rocciosi, che consentivano di percorrerla a piedi. Oggi in bici bisogna segnare il passo, ma è un rallentare che fa bene al cuore: si procede a passo d’uomo sui solchi facendosi largo fra i cespugli per circa cinquecento metri, costeggiando un giovane uliveto, fin quando finisce il sentiero sterrato, lasciandosi definitivamente alle spalle le tracce della storia antica del Salento.
Lasciando per un breve tratto la guida delle frecce gialle, si prosegue fino al menhir Grassi (km 37,7), alto più di tre metri e oggi protetto da un’ansa di un muro di recinzione. Si pedala ancora proseguendo sulla vicinale San Cosimo, per svoltare poi a sinistra e alla seconda a destra per raggiungere il Dolmen Chianca di Santo Stefano (km 39,8), alto poco più di un paio di metri, che si caratterizza per essere abbastanza slanciato.
Ancora poche centinaia di metri e sulla sinistra, isolata nella campagna, ecco una imponente Torre Colombaia (km 40,4), che qui chiamano “palumbara” ossequiando il dialetto salentino. È del Quattrocento ed è davvero grandissima. Proprio di fronte c’è il Santuario della Madonna della Grotta, affianco al cimitero, con una cripta che custodisce affreschi del Cinquecento.
Si entra nell’abitato di Carpignano Salentino (km 40,8), un piccolo centro di poco più di tremila abitanti che custodisce importanti pagine di storia. Come la Cripta di Santa Cristina (km 40,9), cuore dell’arte bizantina nel Mezzogiorno con i suoi preziosi e ricchi affreschi, fra cui il più antico risale al 959 d.C. Per visitare la chiesetta è sufficiente contattare l’associazione Nea Carpiniana (al 339/4402579), i volontari si metteranno a disposizione per concordare l’apertura con visita guidata.
Si “spacca” tutto il centro del piccolo borgo per dirigersi verso Serrano (km 43,5), piccola frazione di Carpignano, salutati dalla colonna di San Giorgio e dall’elegante torre dell’orologio (km 43,5). Si pedala fino a imboccare la strada vicinale Serrano-Cannole e in soli due chilometri, in parte sterrato, si arriva a Cannole (km 45,5), un altro piccolo centro. Si seguono le indicazioni turistiche per Torcito e lasciandosi alla destra il piccolo castello con il suo austero portale bugnato, naturalmente in pietra leccese.
Poche pedalate in periferia e già si entra nel Parco Torcito (km 47,4), dominato dal complesso della Masseria Torcito (km 47,5), annunciato dall’inizio di una strada carraia scavata nella roccia, dove sono evidenti i profondi solchi che nel corso dei secoli hanno tracciato le ruote dei carri. Questo era infatti uno snodo cruciale dei cammini del Salento, con la via Traiano Calabra che conduceva fino a Otranto. Ma qui i traffici e le frequentazioni umane erano assai più antiche come testimoniano quelle fosse ovali accanto alla stessa strada, segno inequivocabile della presenza di una necropoli. La masseria risale al dodicesimo secolo ed è un complesso molto esteso che comprende due cappelle, una cripta, un frantoio ipogeo, una torre colombaia, tracce di insediamenti basiliani, neviere e granai.
Dopo aver tagliato il bosco e aver attraversato una bella area di macchia mediterranea, si continua a pedalare fra i giovani uliveti. Poi inizia una breve salita, una delle poche vere pendenze, anche se con un dislivello davvero minino, quindi si costeggia la ferrovia e al passaggio a livello si gira a destra per affrontare l’ultimo strappo. Finita la salita, ecco il Santuario della Madonna di Montevergine (km 53,5), un complesso dove la fede si sposa con la quiete e il raccoglimento che può offrire un luogo isolato e ricco di alberi, una vera oasi di verde e di pace. Subito sulla destra c’è la chiesa, annunciata all’esterno da un piccolo menhir, il menhir Montevergine (km 53,4), incastonato in una roccia, alto poco meno di due metri. Imboccando il percorso della Via Crucis ci si affaccia sullo straordinario panorama che consente allo sguardo di spaziare non solo tra il mare di ulivi e i Laghi Alimini fino a Otranto, ma di oltrepassare l’Adriatico: quando la luce è più nitida, da qui si scorgono i monti dell’Albania.
Si prosegue verso Palmariggi (km 55,8) e nell’ampia piazza spicca il Castello: quel possente torrione è solo una testimonianza del maniero che qui fecero erigere gli Aragonesi e che oggi affianca lo storico Palazzo Vernazza, oggi sede del piccolo Comune. Si esce dal paese imboccando la strada per Minervino di Lecce quindi un percorso ciclabile fra gli ulivi, per poco meno di un chilometro. Pedalando nella campagna si tocca Masseria Quattromacine (km 58,6), su un piccolo rilievo, e guidati dai muretti a secco si entra in luogo davvero magico. Una deviazione a sinistra su una strada sterrata conduce dopo poche centinaia di metri al Dolmen Stabile (km 59,8): giungere al suo cospetto è come entrare in un’altra dimensione temporale, nessun segno di civiltà e quel “muro” di enormi massi che fa da quinta al dolmen, tutto sommato di piccole dimensioni (è alto poco più di un metro e il lastrone che lo ricopre è lungo due metri e sessanta e largo poco meno di due metri). Questo, una volta, faceva parte di un piccolo complesso di dolmen, poi rimossi per far posto alle coltivazioni. Chissà a che cosa potevano mai servire questi singolari monumenti della civiltà rupestre, ancora oggi le interpretazioni degli esperti spaziano da riti ancestrali a usi sepolcrali, senza trovare una spiegazione univoca. E restano un mistero anche i menhir, che uno dopo l’altro si susseguono in questa terra che viene definita come il più grande giardino megalitico d’Italia. Ecco allora il Menhir Vicinanze 2 (km 61,2), alto tre metri, infisso come una spada nella roccia su un piccolo rilievo lungo la strada. Ancora poche centinaia di metri e a un altro crocicchio c’è il Menhir Vicinanze 1 (km 61,4), ancora più alto (quasi quattro metri), anch’esso infisso nella roccia. Ma è il Menhir San Paolo (km 61,8) quello più singolare, anche se è alto solo poco più di due metri. Lo si incontra sempre sulla strada, sulla sinistra. Ai suoi piedi nel banco roccioso scelto per edificarlo si apre una piccola cavità naturale, una grotticella che custodisce un antico affresco di San Paolo e un ragno che fa pensare al fenomeno delle tarantate.
Si arriva a Giurdignano (km 62) e si sfiora un altro monumento rupestre, il menhir San Vincenzo (km 62,1), prima di ritrovarsi davanti a un altro piccolo scrigno di colore, arte e storia, la Cripta di San Salvatore (km 62,2): inglobata in una moderna costruzione in pietra leccese che dai finestri fa intuire la bellezza qui protetta, è un vero gioiello dell’architettura rupestre bizantina, risalente all’VIII secolo, con le sue tre navate scavate interamente nel banco di roccia tufacea.
Poche centinaia di metri e ci si ritrova nel centro storico di Giurdignano (km 62,6) al cospetto del palazzo Baronale in una piazza dove, nella cornice di pietra leccese, pulsa il cuore di una piccola comunità. Nel centro urbano si tocca il Menhir Madonna del Rosario (km 62,9) per poi imboccare una stradina che, dopo il cimitero, inizia a condurre in direzione del mare. Tra gli ulivi e i muretti a secco, sulla sinistra c’è l’ingresso della Fondazione Le Costantine (km 64,2), che non è solo una struttura d’accoglienza con annessa locanda salentina per trovare ristoro, in tutti i sensi, da quello culinario a quello spirituale. Qui c’è un pezzo di una storia singolare del Salento, una pagina ancora oggi molto viva, con il suo fulcro nelle vicende di donne laboriose e intraprendenti che, nel segno dell’emancipazione, costruirono qui tra Ottocento e Novecento una singolare esperienza con attività d’avanguardia sia nella gestione dell’azienda agraria sia nella tessitura e nel ricamo.
Si continua a scendere gradualmente fin quando un sentiero sulla destra non apre le porte alla Valle dell’Idro (km 66,1), che prende il nome dal corso d’acqua alimentato da sorgenti sul lato nord della valle, le sorgenti di Carlo Magno. È solo un ruscello, ma quanto basta per alimentare gli orti di una valle che alimentano la comunità di Otranto (qui, tra l’altro, si coltivano le cicorie all’acqua, specialità locale). Acqua che in passato è persino servita per costruire un vero e proprio piccolo acquedotto per soddisfare le esigenze militari delle basi del porto (lo costruirono gli inglesi) e quelle delle popolazione locale.
Sul versante destro della valle, lungo la quale scorre il sentiero che diviene presto sterrato, a un certo punto si aprono delle cavità, piccole grotte che costituirono casa e rifugio fin dai tempi remoti. È ancora la civiltà della pietra a parlare con la Chiesa rupestre di Sant’Angelo (km 66,4), con i suoi affreschi che lottano con le ingiurie del tempo. Colpisce la struttura, parte crollata, con i tre absidi tutti scavati nella roccia, a cui si accede attraverso due porte, mentre a fianco una terza porta introduce ad un’altra piccola cavità.
Si continua a pedalare lungo l’Idro e il sentiero diviene un single-track che taglia gli orti fin quando la strada, come il fiume, non “sfocia” a Otranto (km 69), ancora poche centinaia di metri e si ritorna davanti alla Porta Alfonsina. Alla ricerca di un approdo sicuro che Otranto, da secoli, continua a offrire.
A coronare la tappa non può che essere l’arrivo alla Cattedrale (km 69,4). E qui si aprono le porte a un mondo davvero fantastico. Perché, oltrepassata la facciata con il suo straordinario rosone centrale di stampo gotico e il suo elegante portale, a impressionare è il mosaico del monaco Pantaleone, realizzato fra il 1163 e il 1165. Un gioiello dell’arte funestato, come racconta la storia, dall’invasione dei Turchi nel 1480.
Oggi sono altre le guerre che Otranto (e l’Occidente) vivono nel cuore del Mediterraneo. Non a caso, sulla strada del porto, proprio ai piedi delle storiche mura, sorge il monumento all’umanità migrante (km 70,7): il relitto della Kater I Rades nel 2012, a distanza di 15 anni dal naufragio nel Canale d’Otranto che provocò ben 81 morti albanesi per una collisione con una unità navale italiana, è stato trasformato in un’opera d’arte dallo scultore Costas Varostos e oggi le sue lastre di cristallo che fuoriescono dall’imbarcazione sembrano voler squarciare il muro dell’indifferenza. Un monito ai pellegrini di ieri e di oggi.
info tecniche
Percorso:
in linea, segnato con frecce gialle
Punto di partenza:
Brindisi
Punto di arrivo:
Lecce
Lunghezza:
km 53,6
Dislivello:
+248/-201
Strada:
asfalto (60 per cento) e sterrato (40 per cento)
Paesi interessati:
Brindisi, Torchiarolo, Surbo, Lecce
Difficoltà: media
Bici consigliate:
Trekking, Gravel, Mountain Bike
Tempo di percorrenza:
4/5 ore
Itinerario proposto da:
salento.bike